Amore, Dipendenza Affettiva e Psicoterapia
- Dott.ssa Celeste Loglisci
- 12 mag 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Amore e dipendenza sono due parole che evocano significati importanti in ciascuno di noi, significati che tendono a rispecchiarsi l’uno nell’altro, parole forti che sono in stretta connessione fra loro. Difatti in ogni forma di dipendenza è necessariamente contenuto un qualche nucleo esperienziale di amore e allo stesso modo, in tutte le forme di amore è contenuto un qualche aspetto di dipendenza. Quando però dipendenza patologica e amore si connettono, si viene a creare una configurazione complessa in cui la dipendenza ha come oggetto la persona che è in grado di suscitare questa attivazione, questa reazione affettiva. L’amore che di per sé è una forza creativa e generativa, in virtù di questa connotazione di dipendenza può perdere questo aspetto “luminoso” e trasfigurarsi nel suo opposto, assumendo una configurazione distruttiva, negativa e mortifera trasformandosi in “Thanatos”. La dipendenza affettiva è una modalità patologica di vivere la relazione, in cui la persona dipendente arriva a negare i propri bisogni, a rinunciare al proprio spazio vitale pur di non perdere il partner, il quale viene considerato unica e sola fonte di gratificazione nonché fondamentale fonte di “amore” e cura. Si tratta di una forma di amore ossessivo, simbiotico, fusionale e stagnante che viene vissuto alla stregua di una droga e per il quale si sacrificano qualsiasi spinta evolutiva di cambiamento ed ogni altra gratificazione. In questo modo il dipendente affettivo perde la propria individualità e unicità e la sacrifica a vantaggio dell’altro. L’altro diventa la ragione esclusiva per sentirsi motivati e vivi ed è solo quando è sotto l’orbita dell’altro che egli riesce a contattare e a percepire la vitalità che ha dentro di sé. Quando l’altro si allontana, è come se si spegnesse e di conseguenza precipita in una dimensione di anedonia, di depressione, di mancanza, di disorganizzazione entrando in una vera e propria “crisi di astinenza emotiva”. Difatti McDougall ha definito la dipendenza come “folle desiderio di veleno”, e considera qualsiasi sua tensione psichica come una tendenza masochista a intossicarsi cosi come avviene nella tossicodipendenza. L’altro è il polo unico sul quale far convergere emozioni forti che vanno dall’odio più intenso all’amore più sconfinato. La sua identità può sopravvivere unicamente, poggiandosi in modo parassitario all’altro.

Ma cos’è che lo spaventa? Ciò di cui il dipendente affettivo ha più paura è la solitudine e la conseguente separazione dall’altro. Quando è solo vive la solitudine come una esperienza di perdita ed è incapace di viverla come un’esperienza costruttiva in cui l’essere umano, godendo della sua compagnia, riesce a bastarsi; uno spazio d’introspezione e di espressione della propria soggettività e crescita personale. Vivere l’esperienza dell’abbandono equivale all’essere gettato nel buio di una notte piena di incubi, in cui il suo grido di richiesta di aiuto non avrà risposta. Che cosa è all’’origine della dipendenza affettiva? Per poterne comprendere gli esordi e l’evoluzione, è importante partire dai contribuiti di Winnicott, Bion e generalmente della scuola britannica, i quali ritengono che le esperienze di comprensione, contenimento e rispecchiamento da parte delle figure primarie nei precoci periodi della vita sono state collegate alla possibilità di acquisire e maturare la capacità di modulare gli affetti e di pensarli. L'essere umano vive i primi anni della sua vita in simbiosi con la madre. Con la nascita non si taglia il cordone ombelicale. Il bisogno di appartenenza, di dualità, di essere tutt'uno con l'altro rimane intatto. Le sensazioni e le emozioni primitive del bambino, contenute, ossia, ricevute, condivise e trasformate dalla madre in affetti significativi, in elaborazioni affettive e cognitive, conducono il lattante e poi il bambino ad interiorizzare un’attività autoregolatrice e indipendente, legata a oggetti del mondo esterno, i noti “oggetti transizionali”, che mantengono l’illusione diadica con la madre e insieme consentono il graduale accesso alla fiducia nel mondo, all’immaginazione, alla creatività e alla simbolizzazione. Inoltre, con l'acquisizione della padronanza dei movimenti e di altre abilità il bambino maturerà una maggiore conoscenza del mondo esterno che aprirà l'orizzonte dell'immaginario del pensiero. Tutto ciò avverrà se la madre capace di empatia ha rappresentato un faro sicuro nell'oscurità di un mondo ignoto da esplorare; allora il bambino ancora dipendente materialmente e psicologicamente dalla madre comincerà il lungo cammino verso l'acquisizione di sempre maggiori autonomie fino alla rottura della simbiosi primaria. In questo modo l'essere umano comincerà ad avvertire una sua individualità differenziata dalla madre e dai membri della famiglia, pur avendo bisogno di protezione e affetto che confermino la sua amabilità e il suo valore. Ma il percorso non è detto che sia così facile e lineare. Ci sono casi in cui le condizioni ambientali non rispecchiano, elaborandole, le manifestazioni spontanee, i bisogni, le paure del bambino e, per di più quando sono attribuiti a lui sensazioni, emozioni, funzioni o compiti alieni, ciò lo porta a strutturare legami interni ed esterni patologici, piuttosto che a favorire un sano sviluppo affettivo, cognitivo e relazionale. La mancanza di tali accudimenti da parte dell’ambiente rende lo stato affettivo del bambino preda di angosce impensabili. In questa modalità non c’è posto per la separazione, non si può accettare una distanza tra sé e l’oggetto, non può esordire la simbolizzazione intesa come la capacità del bambino di stare solo in presenza della madre, che anticipa a sua volta la capacità di stare solo e di stabilire nuove relazioni. In questo modo l'essere umano deprivato del naturale processo evolutivo del distacco rischierà di rimanere dipendente a vita alla ricerca di un qualcuno che conferisca amabilità, corporeità ed esistenza. Qualcuno o qualcosa che dia senso alla sua vita e la riempia. In questo modo il bambino, ormai adulto si legherà a qualcuno che riprodurrà proprio lo stesso schema a cui è stato condizionato. Questo individuo non a caso tenderà a scegliere come partner personaggi simili al modello primario che ha lasciato aperto il baratro proprio perché "quel" baratro e non un altro si vuole riempire. Ci si renderà disposti anche al sacrificio del proprio pensiero e della propria libertà nel tentativo di rincorrere l'oggetto raggiungibile solo talvolta o mai. Ma come si esce dalla dipendenza affettiva se non costruendo in sé quel baricentro che la vita non ci ha permesso di costruire? Come si esce dalla dipendenza dal gioco, dalla droga, dall'alcool, dal cibo, dal sesso, da Internet ecc.., che esprimono sempre il bisogno di colmare una voragine affettiva? Come sciogliere l'illusione di poter soddisfare il proprio bisogno di piacere, di pienezza attraverso un oggetto esterno che nel momento stesso nel quale ci si annega diventa distruttivo? Come terapeuti, ci troviamo di fronte ad un essere umano che si è sentito privato di un accudimento amoroso e rispettoso della sua autenticità, che nella dipendenza affettiva viene sacrificata ad unico vantaggio dell’altro. Il compito di noi analisti è quello di condurre l'individuo a tale consapevolezza affinché il passato lacerato e incompiuto rimanga così come fu e sia accettato e integrato come forza motrice per un presente che dovrà essere volto non alla ricerca di una risoluzione impossibile di antichi problemi ma alla costruzione di rapporti del tutto alternativi che introdurranno nella mente un nuovo modo di pensare se stessi e gli altri, di sentire e di comportarsi.
Dott.ssa Celeste Loglisci
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